Dio nell’altro. Antologia delle omelie di mons. Calogero Peri

«Nell’eucaristia è il modello del nostro essere, del nostro agire, del nostro vivere, del nostro testimoniare la nostra esperienza cristiana, in cui il termine “cristiano” non è semplicemente un aggettivo che si aggiunge alla nostra vita ma è l’essere come Cristo, l’essere in Cristo, l’essere per Cristo; è, soprattutto, l’essere come Lui nel fare quello che Lui ha fatto: un passaggio da una forma di religiosità vaga, esteriore e superficiale, alla dimensione dello Spirito, perché solo se c’è lo Spirito nelle cose allora esse acquistano senso. Lo sappiamo benissimo: lo Spirito della preghiera, lo Spirito della comunione, lo Spirito dell’unità, altrimenti rischiamo di “fare cose” e abbiamo sentito che la carne non giova a nulla se ci fermiamo semplicemente ad una dimensione umana» (Ordinazione episcopale, 20 marzo 2010).

 «Ho un sogno, un desiderio che ritengo importante, un segno dei tempi, una testimonianza dovuta agli uomini, al mondo, alle realtà che in Cristo non credono. Essi vogliono vedere da noi una qualità di relazione che non è semplicemente dettata dalle simpatie, dalla reciprocità, dai favori, dall’interesse ma unicamente e soltanto dall’amore, dal rispetto, dall’essere in questo mondo tutti e sempre come il buon samaritano che si prende cura, che è capace, come ci dice il Vangelo, non di amare perché sei stato amato ma di amare per primo, di amare senza ritorno, di amare senza interessi, di amare tutti, di amare nonostante tutto, di amare il tutto» (ivi).

 «La resurrezione del Signore chiede di entrare nella tua vita, chiede di entrare nei tuoi pensieri, chiede soprattutto di entrare dentro il tuo cuore, altrimenti ci sarà la resurrezione ma non sarà per me non sarà per te e dunque non sarà. Una resurrezione che viaggia sopra le nostre teste e non entra invece dentro il nostro cuore, dentro la nostra concretezza, è una resurrezione che non ci salva, non perché Dio non sia onnipotente ma perché semplicemente io non l’accolgo, io non l’accetto, io non la faccio mia» (Veglia di Pasqua, 3 aprile 2010).

«Oggi noi dobbiamo vivere in questa tensione verso la Pasqua, col coraggio di affrontare il mistero della nostra vita senza essere pienamente dentro la Pasqua nella sua conclusione, nella pienezza, nella sua totalità. Dunque dobbiamo avere il coraggio di vivere oggi il giorno che ci è dato con questa speranza nel cuore. Io non lo so quale sia per me e per te, oggi quel giorno: se è il Venerdì santo, il Giovedì santo o se già è spuntato il mattino di Pasqua. Ma tu sai che qualunque sia il riscatto finale della tua vita, la Pasqua chiede a te ed a me di metterti in gioco e di mettere in gioco quello che tu ora stai per vivere, quello che tu ora stai per sperimentare e ti ricorda che qualunque piega, qualunque percorso prenda la tua vita, ti verrà richiesto di viverlo senza dubitare che alla fine il meglio finirà per accadere anche per te anche per me. […]. Noi non lo sappiamo: la Pasqua non è ciò che ha fatto l’uomo, la Pasqua non è l’opera delle nostre mani, la Pasqua non è una nostra costruzione, non è una nostra speranza, non è neppure un nostro sogno, un nostro desiderio, perché la Pasqua è ciò che ha fatto il Signore! Tutto ciò che avviene a Pasqua lo ha fatto il Signore: noi possiamo fare il Venerdì santo, possiamo fare le storie di tanti tradimenti, noi possiamo continuare a mettere in croce gli uomini e anche Dio, noi possiamo spegnere le luci della speranza come tante volte ci accade. Se tu guardi la realtà da un punto di vista umano, non è che hai da sognare non è che hai da cantare. Questa è l’opera che continuiamo a fare! Però, per nostra fortuna, c’è anche quello che ha fatto Dio. Abbiamo sentito le parole del profeta Ezechiele: “io vi resusciterò dalle vostre tombe, io vi toglierò dal vostro peccato, io sradicherò quel cuore di pietra”. Quel cuore che ciascuno di noi ha dentro e che non gli fa vivere l’amore che il Signore invece ci vuol dare (ivi).

 «Vorrei proporvi l’icona, la prospettiva e il modello della trasfigurazione quale programma autentico di vita cristiana personale, parrocchiale, diocesana ed universale, perché se non marciamo verso la trasformazione profonda che Dio vuole regalare a ciascuno di noi, se non ci rendiamo conto che quella della trasfigurazione, è la prospettiva e la luce giusta per guardare il mistero della nostra vita e soprattutto per guardare la meta, non possiamo sapere verso dove andiamo. Da un monte, quello della trasfigurazione, siamo invitati a guardare un altro monte, quello del Golgota. Il monte della trasfigurazione rappresenta un momento unico, una prospettiva privilegiata, per guardare nella luce giusta il monte del Golgota, che è la nostra meta. Perché per ora e per sempre, per me e per voi, per ognuno e per tutti, la meta è e resta sempre una: è la Pasqua. Pertanto il mistero, insieme di dolore, di sconfitta, di umiliazione che per ognuno di noi può essere la nostra vita, può essere visto e letto invece come anticipo, preparazione della Pasqua, del mattino, della luce e della resurrezione» (I anniversario Ordinazione episcopale, 20 marzo 2011).

 «Quanto mi sta a cuore questo! Riuscire a portarvi in alto, un po’ più in alto di quella mediocrità in cui tutti viviamo per avere una prospettiva diversa sulla nostra vita, un poco più in alto per una vita parrocchiale diversa, un poco più in alto per una vita diocesana più a misura di Dio e meno a misura delle nostre debolezze e fragilità, un poco più in alto sul monte che vi dia e ci dia a tutti la luce giusta, la prospettiva esatta, l’altezza necessaria per guardare con occhi nuovi la nostra debolezza, il nostro limite, il nostro peccato, la nostra quotidianità e riscoprire finalmente come è l’autentico volto di Dio!» (ivi).

«L’esperienza della vita è questa: luminosità ed ombra, luce e tenebre povertà e grandezza dell’uomo, sempre insieme, in me, in te, in tutti noi e negli altri. Dentro quest’oscurità a che cosa ti aggrappi per avere la regola giusta, la prospettiva esatta, per avere le condizioni opportune per non fare sbagli? Per uscire dalla nube e dal buio dell’esistenza, quando siamo immersi nell’opacità della vita, ci dobbiamo aggrappare alla Parola di Dio. Dalla nube c’è sempre una voce che si sente: questi è mio Figlio, ecco l’amato, ascoltatelo! Ecco l’imperativo di Dio!» (ivi).

«Chi ascoltare nel buio della nostra esistenza? A chi mi aggrappo quando gli occhi, quando la chiarezza, quando la soluzione, quando tutto quello che dovrebbe essere immediato non lo è più o non è più luminoso, non è più così a portata di mano? Io per primo, fratelli e sorelle, ho il compito di indicarvi che c’è una Voce, che c’è una Parola, che c’è un Dio che continua a parlare alla nostra vita, a cui dobbiamo prestare il nostro ascolto» (ivi).

 «Penso che in quanto cristiani abbiamo un apporto da poter dare a questa delicata e centrale questione dell’unità. Noi, lo sappiamo, possiamo realizzare diverse forme di unità. Ce ne sono alcune che definirei povere: l’unità che nasce soltanto dall’unicità degli intenti, dal pensarla tutti allo stesso modo, dall’avere uno stesso interesse, dal vivere una stessa condizione sociale, economica, politica. Ma ci può essere un’unità ricca, in cui c’è spazio per le diversità, per le differenze, in cui la convivialità è data dal partecipare ciascuno con la sua unità, con la sua unicità, con la sua particolarità e nello stesso tempo dall’essere tutti insieme una cosa sola, diversi ed uniti» (150° dell’Unità d’Italia, 17 marzo 2011).

«Siamo dunque entrati nella passione di Dio, ma non nella sua passività. Il nostro non è un Dio che subisce gli avvenimenti, che subisce la storia, ma un Dio che vuole insegnare a te e a me come, anche dentro una grande passione, dentro il grande mistero della vita che ci sopravanza da ogni parte e da ogni lato, possiamo saperla gestire se la viviamo per amore. Abbiamo sentito infatti che quando Lui entra nella la sua passione, ha finalmente la consapevolezza di essere figlio di Dio. Ma anche tu ed io, fratelli e sorelle, siamo figli di Dio e per questo viviamo di fatto nella nostra vita, nella nostra condizione, la sua stessa vita, la sua stessa condizione, il suo stesso mistero pasquale, così che noi non abbiamo più la possibilità di dire a Dio: tu a noi regali, doni, offri una storia che è tanto diversa dalla tua. No, la nostra storia è come la sua storia, la nostra vita come la sua vita, la nostra passione come la sua passione, e noi abbiamo la possibilità se vogliamo, se ascoltiamo, se accogliamo questa Parola di Dio, di avere anche noi come Lui dentro questa passione, dentro questo mistero della vita, la capacità e la possibilità di gestirlo. Non certo con le nostre forze, perché dinanzi all’onda d’urto incontrollabile del dolore e della sofferenza, della malattia e della morte, noi ci sentiamo schiacciati dagli avvenimenti. Ma possiamo avere invece per il suo esempio, per la sua parola, per la sua forza, per il suo mistero pasquale, la capacità di poterlo gestire. Lui ci ha detto che si può gestire il mistero della vita ad una sola condizione: cambiando il senso, l’indirizzo, l’impostazione, l’atteggiamento, la disposizione con cui noi viviamo» (Domenica delle Palme,17 aprile 2011.

«A quale fede, a quale senso cristiano noi ci stiamo aggrappando? A quello dei miracoli, ad una vita ed una fede che noi vorremmo essere fondata sul prodigio, su ciò che ti risolve i problemi e non su ciò che ti invita ad affrontarli con una coerenza, una forza e un coraggio che non sono umani ma che sono il dono di Dio per l’uomo? La nostra fede dentro il mistero della croce, la nostra fede attorno al dramma della croce, sotto il Golgota, è la fede di coloro che gli chiedono di scendere dalla croce, cioè a dire di donare e regalare loro una vita in cui non c’è spazio, non c’è disponibilità, non c’è accoglienza per la croce o la nostra fede è come quella del centurione, il quale vedendolo morire disse: “questo è per davvero il Figlio di Dio”? La nostra fede è dentro il mistero della Pasqua, dentro l’accoglienza del Venerdì santo, dentro il dramma incomprensibile di Dio? Perché da un punto di vista umano, la logica, se è logica, ti dice che Dio non può morire e se muore non è Dio. Ed invece il Venerdì santo si hanno, per la nostra visione della realtà, queste contraddizioni, che c’è un Dio ma è debole, che è onnipotente ma è incapace di scendere da una croce. Dentro questa realtà cosa dirai? Siamo capaci di mettere insieme una fede che non è una tangenziale o una scorciatoia al dolore e alla sofferenza, ma è una fede capace di accogliere sino in fondo la totalità del mistero della nostra vita come Cristo è stato capace di accogliere sino in fondo il mistero della volontà di Dio suo Padre?» (ivi).

«Dal momento che delle donne in un mattino di Pasqua, in una notte come questa, sono andate ad un sepolcro e non hanno trovato più un morto ma Gesù Cristo vivente, questo avvenimento, questo annunzio ha cambiato la storia del mondo, ha cambiato la nostra storia, ha cambiato la storia di tutti. E dunque noi non possiamo più vivere come se questo non fosse accaduto, perché se questo avvenimento non fosse accaduto, noi faremmo bene a stare muti, a tentare di arrangiarci come possiamo a vivere la nostra vita, tanto l’esito finale, il risultato finale di questa partita che è la nostra vita sarebbe scontato: andremo a finire tutti nel buio, nel nulla, nella morte. Capite benissimo perché questa sera, quand’anche il Signore ci desse la possibilità di chiedergli qualsiasi cosa e di ottenerla, ogni nostra richiesta sarebbe superata da quello che Lui realmente ci ha donato: la certezza della vita, della resurrezione, come avvenimento, come parola finale, come esito ultimo della nostra vita» (Veglia di Pasqua, 23 aprile 2011).

«Ogni volta che la vita con le sue pesantezze ci riproporrà inesorabilmente prima o poi, ad alcuni in un modo ad altri in un altro, il mistero del Venerdì santo, il mistero del fallimento, il mistero del dolore, il mistero della sofferenza, il mistero della morte, non dimentichiamoci che questa è senz’altro una parola vera sulla nostra vita, ma non è quella definitiva, non è quella conclusiva, non è l’esito finale, perché l’esito finale appartiene al mattino di Pasqua, appartiene alla vita, appartiene alla resurrezione. Per questo nonostante le nostre paure, nonostante i nostri timori, nonostante i nostri fallimenti, nonostante il nostro peccato, nonostante tutto, noi non abbiamo paura perché, piuttosto che dare credito a ciò che tante volte vedono i nostri occhi e toccano le nostre mani, noi vogliamo dare ascolto a questa Parola che ci dice che Cristo è risorto e con Lui anche la nostra vita e la nostra speranza sono risorte. Per questo noi affrontiamo qualsiasi notte, con la certezza che viaggiamo verso il mattino, verso la luce, la vita e la resurrezione» (ivi).

«Noi possiamo vivere la nostra vita in prospettiva della morte o possiamo viverla a partire dalla resurrezione e in prospettiva di compimento. Questa è la scelta, fratelli e sorelle, che la resurrezione del Signore di fatto ci mette innanzi e ci chiede di fare. Fino ad oggi, fino a questo annunzio, noi dovevamo leggere la vita – dico dovevamo, perché non avevamo altro modo di leggerla diversamente – da un punto di vista umano concreto, fisico, biologico. La nostra vita ha i suoi tempi, i suoi ritmi che umanamente non possiamo cambiare: nasciamo cresciamo e inesorabilmente con il passare del tempo, senza che tu faccia nulla, invecchiamo e moriamo. Questo è lo svolgimento ordinario, inattaccabile della nostra vita. Noi possiamo rimanere prigionieri di questa esperienza, possiamo rimanere angosciati da questa logica, possiamo avere un l’unica difesa: quella di dire “va bene, ancora ho degli anni innanzi a me”, oppure, ancora peggio, possiamo non pensarci e distrarci, rivolgendo la nostra attenzione e la nostra coscienza ad altro. Ma questo modo di vivere la vita non la cambia, non cambia l’esito finale. Oppure noi la possiamo accogliere in tutta la sua verità disarmante – perché ci disarma! – ma nello stesso tempo con la sfida di vita, di resurrezione e di speranza che Dio ha portato dentro la morte, dentro il dolore, dentro la croce, dentro il Venerdì santo, perché Dio non ha portato la sua vittoria soltanto dentro il suo Venerdì santo, ma anche dentro il nostro dolore, dentro la nostra croce, dentro il nostro Venerdì santo, dentro le nostre stesse morti, perché noi le potessimo guardare da un’altra prospettiva: non come il capitolo definitivo e conclusivo di ogni esistenza umana ma come un momento tragico, drammatico, oscuro, impenetrabile e per noi angosciante da un punto di vista umano, che tuttavia è l’esito finale della nostra esistenza» (Pasqua, 24 aprile 2011)

«La santità di Giovanni Paolo II è nel suo essersi radicato profondamente in Cristo Gesù, radice viva della sua vita, che è la fonte limpida della sua anima, che è la forza della sua parola. La sua santità è coltivata nel silenzio, in quell’appoggiarsi misterioso alla croce di Cristo, che poi porta al mondo, in quel vivere veramente il Signore come realtà profonda della sua esperienza, della sua forza e del suo coraggio, in quel poter dire: “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. Allora capiamo da dove lui attingeva la forza, non soltanto quando si poteva presentare al mondo con la potenza della sua parola, del suo messaggio, con la robustezza della sua voce, della sua comunicazione, ma anche quando aveva il coraggio di presentarsi al mondo, agli altri, con la debolezza della sua vita, con la fragilità del suo corpo, con il limite della sua vecchiaia, della sua stanchezza, della sua incapacità di parlare… Forse tanti abbiamo detto o abbiamo pensato: perché non si ritira, perché non si tutela, invece di presentarsi in pubblico? Voi lo ricordate quanto a volte erano impietose le immagini che lo ritraevano nella sua decadenza, nella sua debolezza, nella sua fragilità. Ebbene, la sua santità era in quell’essere completamente appoggiato alla croce. Quel Venerdì santo, che tutti ci ricordiamo, egli mostrava al mondo, finalmente in maniera chiara, in maniera inequivocabile, che mentre portava Cristo al mondo, voleva soltanto gridare al mondo, e dunque a noi, che era Cristo che lo portava, che era Cristo che lo reggeva, che lo sosteneva, che gli dava forza, che gli dava coraggio» (Veglia di preghiera in preparazione alla Beatificazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II, organizzata dall’Azione Cattolica di Caltagirone, 30 aprile 2011).

N.B.: I brani proposti sono stati trascritti da registrazioni audio e non sono stati rivisti dall’autore.