Emmaus: la Parola compagna di strada

1. Il percorso: da Gerusalemme a Emmaus: dalla speranza dello straordinario alla delusione dell’ordinario.

Chi sono i due discepoli? Due giovani, probabilmente, non fanno parte del gruppo degli apostoli. Possono essere due giovani cosiddetti “impegnati” nella comunità ecclesiale, ma che hanno perso le ragioni del loro impegno, oppure due giovani “del muretto”, che si sono allontanati da una fede e da una Chiesa che sentono lontana dalla loro vita (Cristo sì-Chiesa no).

Emmaus è il simbolo di un villaggio quasi sconosciuto (30 Km ovest o, secondo altri, 11-12 Km nord-ovest da Gerusalemme), come se i due discepoli volessero nascondersi, per fuggire da una realtà troppo complessa e dura che non capiscono e che hanno paura di affrontare. Ma non si può fuggire da sé stessi!

Si scappa da Gerusalemme: per Luca città-meta di tutto il suo vangelo. Si torna sui propri passi, con un atteggiamento rinunciatario. Da Gerusalemme si può ripartire se si ha lo Spirito (Pentescoste), ma i due discepoli sono “di-sperati”, hanno perso lo Spirito che dà speranza! Si scende (cfr. la parabola del buon samaritano: anche lì si scendeva!): il Signore incontra l’uomo quando scende giù, quando sta precipitando nel vuoto di un’esistenza senza senso. È il percorso dei giovani oggi: crollati i miti rivoluzionari, l’illusione di poter cambiare la realtà, il giovane è solo con sé stesso, senza più punti di riferimento. La disperazione (noi speravamo) e il nichilismo sono le sue compagne di strada, (cfr. Montale: “Questo solo possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo). Una disperazione del nulla che non dà spesso segnali preoccupanti, ma è piuttosto un malessere strisciante, un disagio, un male di vivere, che non emerge in modo clamoroso se non in casi estremi (droga, suicidi giovanili).

Il “giovane del muretto” non sa più che strada scegliere, non sa più qual è il senso della sua vita. E allora preferisce non andare avanti, rifugiandosi nel piccolo gruppo, accogliente e marcato da gesti e gerghi tutti suoi. Emmaus è quindi il “muretto” conosciuto e rassicurante, ma lascia “fuori” Gerusalemme, cioè i problemi reali della vita, i rapporti con gli altri, con famiglia, la società, la Chiesa.

Ma anche il giovane dell’impegno non sa più dove andare: ha smarrito il senso delle parole che dice, che rimastica senza più crederci (i due discepoli non “parlano” fra loro: il verbo usato da Luca è omilèin, cioè “fare omelie”: fanno omelie senza speranza, troppo simili alle omelie delle nostre comunità! Ridicono stancamente una Parola che non salva!). È un giovane stanco e deluso, chiuso nei propri pregiudizi (“gli altri non capiscono niente“: le donne glielo hanno pur detto, ma cosa volete che capiscano!), non sa più ascoltare.

 

2. L’incontro con lo sconosciuto:

1ª tappa: l’ascolto.

Si fa avanti con discrezione, non interviene per giudicare. Cammina col loro passo, si ferma quando si fermano. Non comincia a parlare, ma chiede come chi non sa niente. Con umiltà chiede soprattutto di poterli ascoltare. Un ascolto che non è accettazione passiva (“stolti e tardi di cuore!”), ma provocazione. L’ascolto è il primo stadio del dialogo: perché ci sia il dialogo è necessario che la parola “passi” da un interlocutore all’altro. Il silenzio di chi sa ascoltare vale più di mille parole dette a sproposito.

Qui sta la differenza tra dia-logo e dia-lettica: il primo è al servizio della verità e rispetta l’altro (Socrate); la seconda è una tecnica (cfr. il suffisso “-ica”: come matematica. chimica, etica, etc.)) al servizio della persuasione (sofistica), che vuole distruggere le opinioni altrui per imporre le proprie, ma è indifferente alla verità. Cfr. la Tertio millennio adveniente, n. 35: “Un altro capitolo doloroso, sul quale i figli della Chiesa non possono non tornare con animo aperto al pentimento. è costituito dall’acquiescenza manifestata, specie in alcuni secoli, a metodi di intolleranza e persino di violenza al servizio della verità […]. Ma la considerazione delle circostanze attenuanti non esonera la Chiesa dal dovere di rammaricarsi profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto… Da quei tratti dolorosi del passato emerge la lezione per il futuro, che deve indurre ogni cristiano a tenersi ben saldo all’aureo principio dettato dal Concilio: “La verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore” [Dignitatis Humanae, 1]”.

2ª tappa: la memoria come ricerca del tempo perduto. Dal kronos al kairòs

Il dia-logo: dal lògos al Lògos: le parole povere dell’uomo (parabola e non verbum!) diventano la Parola di Dio. Racconta la loro stessa storia, ma dal punto di vista di Dio. Rimette insieme i cocci di una storia spezzata, ridando loro un senso. Non dice: “Gettate via i cocci, vi do un’anfora nuova”, ma mette nella loro storia quella speranza che avevano smarrita. Badate che non cambia la loro storia di delusione in modo miracolistico: la storia resta la stessa, ma ha una prospettiva che prima le mancava.

Ecco l’annuncio: dalla delusione di una vita senza più storia alla novità di una vita in cui la memoria del passato si fa promessa e speranza. Per questo i loro cuori “lenti” si scaldano finalmente e ricominciano a battere: hanno ripreso gusto alla vita.

 

3. Il riconoscimento allo spezzare del pane: l’eucarestia come compagnia e vangelo della carità.

Lo ri-conoscono: conoscono nuovamente “Chi” avevano dimenticato. È il senso della nuova evangelizzazione: far conoscere nuovamente, “di nuovo” e “in maniera nuova”, il Signore che salva!

Ma lo ri-conoscono allo spezzare del pane: perchè solo chi ha saputo essere loro “compagno” (cum pane!), può spezzare veracemente il pane con loro: l’eucaristia è il momento culminante in cui s’incarna il vangelo della carità. È in nuce un itinerario di pastorale giovanile che dalla parola, vissuta nella carità, accompagna fino alla liturgia e ai sacramenti. Altro che Cristo sì-Chiesa no!

Scompare ai loro occhi, ma non al loro cuore: lo hanno dentro, hanno recuperato l’entusiasmo, cioè l'”aver un Dio dentro“, quella gioia e speranza che niente e nessuno possono togliere.

Scompare discretamente, così come discretamente era apparso: non crea dipendenze psicologiche. Il buon maestro è quello che non si mette al posto dei discepoli e fa il cammino per loro, ma quello che insegna loro come camminare da soli con le proprie gambe.

 

4. Giovani risorti per una nuova evangelizzazione.

E alzandosi: anastàntes (la traduzione CEI: “e partirono senza indugio” non rende la pregnanza pasquale del passo). Cioè: risorgendo: hanno riacquistato la vita!.

Il ritorno a Gerusalemme: la conferma della propria fede per vivere l’annuncio. Il percorso ritorna da dove è partito. Ma tutto è cambiato: hanno ripreso in mano la loro vita, non vivono più nella nostalgia di un passato irripetibile e nel sogno di un futuro impossibile, ma nella consapevolezza di avere la responsabilità del loro presente, in cui si incontrano fecondamente la memoria di un passato che non è reperto fossile, ormai inutile, ma storia di salvezza che continua, e la speranza in un futuro che si fa progetto già qui ed ora.

 

5. Conclusione o nuovo inizio?

Questi sono i giovani pronti ad affrontare con spirito nuovo il terzo milennio, perché hanno trovato nel loro Signore e Maestro “la chiave, il centro e il fine dell’uomo nonché di tutta la storia umana” consapevoli che “al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli” (T.M.A., n. 59).

Giacomo Belvedere