Giacobbe, il lottatore (Gn 25,19 – 33,11)

Il testo è una rilettura della storia di Giacobbe narrata in Gn 25, 19 – 33, 11. Fu Scritto per il cammino diocesano 1989-90 dei giovani di Ac “Dove troveremo titto il pane?”, incentrato sulla dimensione della fede in sé, negli altri, in Dio. Dopo aver riflettuto sulla fiducia in sé, nella 2a tappa, “Fidarsi è bene confidarsi è meglio”, i giovani di AC erano invitati a confrontarsi con la fiducia negli altri. “Anche questa seconda dimensione della fede” - chiariva il fascicolo pubblicato allora – “trova la sua origine e ragion d’essere ‘oltre’ l’orizzonte meramente umano e non può essere banalizzata e ridotta alla considerazione piuttosto stucchevole che in fondo siamo tutti delle ‘brave persone’ di cui ci si può fidare. No, la fiducia negli altri che ci viene chiesta ha radici più profonde e serie: le sue motivazioni non sono psicologiche o sociologiche, ma teologiche. È il Signore che ci indica nell’uomo la via maestra per incontrarlo. Soprattutto quando lo cerchiamo fra gli ultimi, i poveri, i diseredati (cf. Mt 25, 31-46): in essi è presente il Cristo, perché questa è la sua volontà. Fidarsi degli altri è un modo esigente per fidarsi di Dio: questo è il paradosso meraviglioso della vita cristiana!”.

Riproproniamo a distanza di 12 anni l’icona biblica di Giacobbe, perché ci sembra ancora attuale per la riflessione personale, per incontri di gruppo sulle relazioni interpersonali o come spunto per una lectio. Il racconto legge il testo biblico secondo l’ottica della riconciliazione e della fiducia negli altri. La vicenda di Giacobbe ed Esaù diviene paradigmatica dei rapporti che dobbiamo avere nei confronti degli altri uomini: solo quando Giacobbe incontra Dio, diviene realmente capace di incontrare il fratello; solo quando si arrende al Signore, viene dichiarato vincitore. La sua povertà, scoperta e riconosciuta al cospetto di Dio (ne è segno l’handicap che si porterà tutta la vita), libera la sua capacità di accoglienza e la sua disponibilità a “farsi servo” del fratello. Questo è il nome nuovo che riceve chi è stato toccato duramente dal Signore: saper dire come Giacobbe ”Incontrare te è stato come incontrare Dio”.  

Questa che proponiamo è una lente per accostarsi al brano, ma non è né l’unica né forse la più esaustiva: pensate a quante altre prospettive si potrebbero aprire utilizzando le categorie bibliche della promessa, dei diritti di primogenitura nell’economia salvifica, delle vie misteriose e “scandalose” seguite dal Signore per realizzare i suoi piani, del “farsi servi”, etc.

 

 

GIACOBBE IL LOTTATORE

Giacobbe, seduto lungo le rive dello Iabbok, interrogava inquieto l’orizzonte. Le acque tranquille del torrente scorrevano pigramente, senza rompere il silenzio cupo della notte.

Come era lontana Carran! Era fuggito di nascosto per sottrarsi all’ira dello zio Labano. Quando era stato infine raggiunto, dopo sette giorni di strenuo inseguimento, sulle montagne di Galaad, Giacobbe aveva avuto un brivido di paura. «È la fine», si era detto. Ma tutto si era risolto bene. Labano si era rappacificato, aveva benedetto i nipoti e le figlie ed era ritornato sui suoi passi verso nord.

Vent’anni aveva passato a Carran! erano stati anni di duro lavoro, di sacrifici e di fatica spesso mal ripagata. Ma ne era valsa la pena. Non aveva che un bastone con sé quando si era lasciato precipitosamente il Giordano alle spalle per rifugiarsi presso i parenti materni a Carran, nella Mesopotamia settentrionale. Anche allora stava scappando: Esaù, suo fratello gemello, aveva giurato di ucciderlo. Conosceva bene Esaù: era capace di farlo.

Ed ora, di ritorno in Canaan, era un uomo ricco: portava con sé due mogli, undici figli, servi, greggi ed armenti numerosi e di ottima qualità. Suo padre Isacco sarebbe stato finalmente contento. Non aveva mai gradito molto la sua indole tranquilla e sedentaria, la sua predilezione per la calda e accogliente sicurezza delle tende dell’accampamento, sotto la vigile protezione materna. Rebecca glielo stava rovinando quel suo figlio dai delicati lineamenti di eterno adolescente, tenendoselo così stretto e riempendogli la testa di antiche storie e sogni irrealizzabili. La vita rude della steppa ci voleva per temprare un vero uomo, non le sue fantasticherie!

Giacobbe ricordò con gratitudine la madre: era stata lei a parlargli per prima del nonno materno Betuel, dello zio Labano e delle cugine: Lia, dagli occhi spenti, e la bella Rachele.

La somiglianza tra Rachele e la zia Rebecca era impressionante; anche Rebecca era stata – lo si capiva ancora – una donna bellissima. «Sicuro», annuiva decisamente col capo il padre Isacco, quando si abbandonava ad uno dei rari momenti di confessione nostalgica, «non c’era nessuna donna che potesse stare alla pari con lei!».

Sette anni aveva dovuto penare per avere Rachele. Sette lunghi anni che gli erano parsi pochi giorni, tanto egli l’amava.

E quando Labano con un sotterfugio gli aveva rifilato Lia – «E che? Potevo lasciare la maggiore zitella?», si era scusato col nipote che si lagnava per l’inganno -, Giacobbe non aveva detto più niente ed aveva accettato di stare al servizio dello zio per altri sette anni. Tutto avrebbe fatto per Rachele.

Poi erano venuti altri guai: liti e gelosie tra le sorelle, ripicche e dispetti. E per di più Rachele, la bella Rachele, era sterile. Ma infine il Signore si era ricordato di lei ed era nato Giuseppe.

Quando tutto sembrava andare per il meglio, Giacobbe era dovuto fuggire, riprendendo la strada verso casa del padre. Si era accorto che Labano non lo guardava più come una volta: «Meglio tagliare la corda, prima che sia troppo tardi», aveva deciso. Era sempre così: più voleva starsene tranquillo, più era costretto a scappare di qua e di là, senza poter avere una fissa dimora. Era una vita che scappava. Adesso aveva detto basta, non ne poteva più.

Un lieve fruscio, sull’altra riva dello Iabbok, lo fece sussultare. No, non era vero, aveva ancora paura. Stava ancora scappando, da quel posto sinistro, dal fratello Esaù, che avanzava da sud verso di lui con quattrocento uomini. Ma forse scappava da se stesso…

E dire che era stato proprio lui ad avvisare il fratello del suo ritorno. Gli era sembrata una buona idea: «Meglio che lo sappia da me, piuttosto che lo venga a sapere da altri», aveva pensato. Ma, Dio mio, c’era proprio bisogno di venirgli incontro con tutto quello stuolo di gente che non faceva presagire niente di buono? Era meglio non fidarsi troppo.

Così aveva preso le sue precauzioni: aveva diviso in due gruppi la sua gente, dicendosi: «Se Esaù piomba su un gruppo e lo distrugge, l’altro potrà salvarsi». Ma non si sentiva ancora al sicuro. Ed allora aveva mandato in regalo al fratello duecento capre e venti capri, duecento pecore e venti montoni, trenta cammelle allattanti con i loro piccoli, quaranta mucche e dieci tori, venti asine e dieci asini. Forse avrebbe in tal modo calmato l’ira del fratello, disponendolo ad una benevola accoglienza. E se Esaù non avesse gradito? Se avesse pensato: c’è sotto un trucco?

Osservò lo Iabbok, che continuava indifferente a rimandare alla luna luccichii intermittenti. Aveva ripassato il guado del torrente con tutta la sua famiglia ed i suoi averi, rifacendo il cammino già percorso. Era meglio tornare indietro e mettere tra sé ed il fratello lo Iabbok. Si era appostato su di una posizione più facilmente difendibile: ma sarebbe bastato?

Ci voleva qualche nuova astuzia, qualche intelligente stratagemma: ne aveva escogitati tanti in vita sua e proprio adesso non avrebbe trovato una via di scampo? Aveva ordinato a tutti di allontanarsi. Così poteva concentrarsi meglio. Rimase solo, seduto lungo le rive dello iabbok a scrutare nel buio di quella notte interminabile ed angosciosa.

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Non appena aveva ricevuto il messaggio del fratello che gli annunciava il suo ritorno, Esaù aveva radunato quattrocento uomini, dei più valorosi, ed era partito da Seir, la campagna di Edom, galoppando veloce verso il nord. Cosa l’aveva spinto? L’odio, la brama di vendetta, il rancore a lungo covato contro quel suo fratello bugiardo e traditore?

Digrignò con ferocia i denti. Per ben due volte era stato truffato dal fratello. Un giorno gli aveva sottratto con l’inganno i diritti di primogenitura per un misero piatto di lenticchie, approfittando della sua fame e – perché non dirlo? – della sua leggerezza: ma era suo fratello gemello, poteva mai immaginare che stesse tramando contro di lui? Eppure aveva cercato di non farne un dramma.

La seconda beffa era stata più atroce, ed era quella che gli bruciava ancora forte. Giacobbe aveva carpito con l’inganno al padre la benedizione che spettava a lui, Esaù, ed a lui solo. Era come se gli avesse tolto tutto. E quel povero Isacco, ormai vecchio e cieco, raggirato così, senza pudore, con un cinismo indegno di un figlio di Abramo! E la madre complice, anzi istigatrice contro il suo stesso sangue!

Aveva pianto di rabbia, allora, aveva urlato, imprecato e maledetto il fratello. Aveva supplicato il padre di dare anche a lui la benedizione. Isacco aveva scosso il capo sconsolato, cercando di confortarlo, ma la parola data a Giacobbe era irrevocabile. «Maledetto chi lo maledirà, e benedetto chi lo benedirà», gli aveva sussurrato, ricordandogli la clausola della benedizione. Questo era veramente troppo: benedire il fratello, mai!

Spronò con forza il cavallo. Aveva fretta di incontrare Giacobbe. Sentiva un peso insopportabile sul cuore, come un bubbone malefico, cresciuto a dismisura di anno in anno, avvelenandogli l’esistenza. L’odio è una passione divorante, che a lungo andare ti distrugge. Bisognava pure uscire da quella prigione, ma le chiavi le aveva Giacobbe. Doveva dargliele: che scorresse pure il sangue, se occorreva!

«Maledetto chiunque…»: suo padre aveva ragione. Non sarebbe stato veramente libero finché non avesse benedetto il fratello. Se almeno fosse riuscito a pronunciarle davvero quelle parole di benedizione!

Le prime luci dell’alba ammiccavano liete dietro le alture di Galaad, quando Esaù fermò improvvisamente la sua corsa. Sentiva l’ansimare furioso del cavallo.

Laggiù, Giacobbe aveva passato il guado dello Iabbok e avanzava, zoppicando, verso di lui.

****

La stella del mattino sorrideva a Giacobbe. Era ancora stordito. «Ho veduto Dio faccia a faccia e non sono morto!», ripeteva tra sé meccanicamente. Era stata una notte tremenda. Aveva lottato con uno sconosciuto sino all’alba, senza riuscire a vincerlo.

Lo sconosciuto cercava di divincolarsi, ma Giacobbe non l’aveva mollato un attimo. Nell’affanno della lotta, aveva visto passare davanti a sé tutta la sua vita. Una sorta di ricapitolazione istantanea, come forse – così dicono -, avviene ai moribondi.

I due lottatori si contorcevano nella polvere senza emettere un grido. Tutto si era svolto in un silenzio opprimente. Persino la luna si era nascosta oltre l’orizzonte per non vedere.

Aveva ripensato ad Esaù. Strano, la madre gli aveva raccontato che più volte aveva sentito lottare i due gemelli nel suo grembo. E quando Giacobbe era nato, subito dopo Esaù, teneva saldamente in mano il calcagno del fratello, quasi non volesse staccarsi da lui.

Lo sconosciuto era abile, ma non gli sarebbe sfuggito. Doveva sapere alfine perché stava lottando da tutta una vita. Doveva sapere con chi stava lottando. O, forse, non era il nome dello sconosciuto che egli voleva sapere, ma il suo?

Con una mossa a sorpresa il suo avversario l’aveva colpito all’articolazione del femore e gliela aveva slogata. Adesso voleva andarsene, ma Giacobbe l’aveva fermato: «Non ti lascerò andare, finché non mi avrai benedetto!».

«Come ti chiami?».

«Giacobbe», aveva risposto. E senza sapere perché, lo sgomento si era impadronito del suo cuore.

«Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele», aveva ripreso lo sconosciuto, «perché hai lottato contro Dio e contro gli uomini e hai vinto». Poi, senza voler rivelare il suo nome, l’aveva benedetto.

Aveva vinto, proprio quando si era arreso, aveva vinto! Aveva veduto Dio faccia a faccia e non era morto! Cercò nei riflessi delle acque dello Iabbok il suo volto, il volto di Israele. Una luminosità nuova brillava nei suoi occhi.

Si rialzò faticosamente da terra. Zoppicava, non poteva più fuggire. Ma aveva finito di scappare, finalmente. Non voleva più mandare avanti gli altri, e restare nascosto al sicuro, nella retroguardia. Doveva andare avanti a tutti, ormai, l’aveva infine capito.

Si incamminò, seguito dalle mogli e dai figli, cercando, per quanto il suo passo incerto e claudicante gli permettesse, di andare spedito. Aveva fretta di ricongiungersi col fratello per gridargli: «Incontrare te, oggi, è stato come incontrare Dio!».

 

Giacomo Belvedere